Questa volta lasciate che sia felice, non è successo nulla a nessuno, non sono da nessuna parte, succede solo che sono felice, fino all’ultimo profondo angolino del cuore.
Busto Arsizio, Piazza Garibaldi, sono le undici del mattino di una mattina umida e uggiosa, all’improvviso si sente un tonfo, sordo, crudo, come qualcosa che si rompe.
Subito dopo urla, clacson, rumore, scalpicci concitati.A terra sta un giovane, la sua posizione è innaturale, non passa che una manciata di secondi e tutt’attorno è un via vai di sirene, ambulanze, vigili del fuoco, carabinieri, isteria.
Si fa il possibile per salvare una giovane vita che purtroppo si spegnerà pochi minuti dopo, prima di arrivare in ambulanza, dove i medici non potranno far altro che constatarne il decesso.
Questo è un fatto, certo e freddo come la pioggia che si culla nelle grondaie, una notizia drammatica che nell’arco di poche ore ha girato per tutta la provincia di Varese e non solo.
Cosa colpisce di quello che è accaduto?
Naturalmente il gesto estremo, portato a compimento da una vita che non se la sentiva più di andare avanti, quel volo di trenta metri e poi quella morte, alla mercè di tutti i passanti.
Già, il pubblico non pagante.
Sono bastati pochi minuti perché decine e decine di bustocchi si assiepassero dietro il nastro bianco rosso insediato dai carabinieri, tutti curiosi e soprattutto armati di i-phone pronto sparare, a immortalare un momento tragico, un suicidio, una di quelle parole che in più di un’occasione ha solleticato la nostra voyeuristica e annoiata immaginazione.
Ed eccovi servita la spettacolarizzazione della tragedia.
Altrui, naturalmente.
E allora sotto a chi tocca, uno dietro l’altro, tutti in fila per fotografare il ragazzo morente, forse respira ancora, forse no, c’è anche un po’ di sangue, magari con un ritocco su photoshop si riesce a rendere la scena ancora più suggestiva, per poi condividerla con gli amici.
E dove? Davanti a un camino, come si faceva una volta, quando per passare il tempo si guardavano le fotografie degli avi? Macchè! Sui social network, senza lesinare commenti, magari infilando qua e là una di quelle frasi patetiche, scopiazzate dal solito portale web che torna sempre utile quando si vuole fare colpo, il tutto per ottenere qualche misero “like” che ci farà sentire più importanti.
Oggi lasciate che sia felice, io e basta, con o senza tutti, essere felice con l’erba e la sabbia essere felice con l’aria e la terra, essere felice con te, con la tua bocca, essere felice.
La news entra nel web e non si può fare nulla per fermarla, tutti ne parlano, tutti hanno la loro “rispettabile” opinione. Si è suicidato? No, l’hanno spinto! Era depresso! No, era un ragazzo normale, ma vai a capire come girano le cose nella vita!
E così via, fino a quando non si raggiunge il massimo del becero, cioè la ricerca del nome.
Perché bisognerà pure dare un volto a quel giovane che ci ha reso la giornata più interessante, bisognerà pur scavare nelle pieghe del suo volto per capire se stava male, per poter esprimere l’ennesima opinione su un fatto che non appartiene a nessuno.
Perché un ragazzo è morto, si è buttato dall’ultimo piano di un grande palazzo, forse non voleva, forse aveva un macigno dentro ma questo a noi non deve interessare, possiamo solo pensare che aveva una vita davanti e che tutto il resto ha l’obbligo impallidire davanti a una notizia del genere.
Sì, dovrebbe essere così.
In un mondo normale.
Dove ognuno di noi serba ancora il dovuto rispetto per chi decide di voltare le spalle e andarsene.
Senza tornare più.
Carlo Albè