Indipendentismo

icona editoriale “Viva l’Italia, l’Italia liberata, l’Italia del valzer, l’Italia del caffè. L’Italia derubata e colpita al cuore, viva l’Italia, l’Italia che non muore”.

Venerdì 21 marzo 2014, Treviso.

Piazza dei Signori è gremita di persone che colorano l’aria con grandi bandiere giallo rosse, Gianluca Busato, imprenditore con un passato in Lega Nord urla alla folla i risultati del referendum sulla secessione.

L’89% degli oltre due milioni di partecipanti ha votato a favore, un dato che certifica la ferrea volontà veneta di staccarsi dallo stato italiano, un aspetto su cui occorre fermarsi a riflettere, perché rappresenta la cartina tornasole di un sentimento sempre più difficile da nascondere agli occhi di chi ci guarda. Il Veneto non si sente più una regione, bensì un piccolo stato indipendente che vuole camminare con le proprie gambe e rimettersi in piedi prima che tutto crolli, prima che la crisi mangi anche gli ultimi tranci di ricchezza rimasti, di una terra che fino a una manciata di anni fa rappresentava uno dei motori pulsanti di questo paese.

E cosa succederebbe se questo avvenisse per davvero?

Studi economici rivelano che lo stato dovrebbe rinunciare a venti miliardi di euro, l’iva rischierebbe di aumentare di ben tre punti percentuali, lo stesso Veneto non sarebbe responsabile del debito pubblico italiano perché non ha contribuito a crearlo, anzi calcolando i residui fiscali degli ultimi trent’anni sarebbe l’Italia ad avere un debito con la sua ex regione di circa 500 miliardi di euro.

“Viva l’Italia, l’Italia che è in mezzo al mare, l’Italia dimenticata e l’Italia da dimenticare, l’Italia metà giardino e metà galera, viva l’Italia, l’Italia tutta intera”.

Ma non è finita qui.

Perché in mezzo all’indignazione, striscia anche la disperazione mista a rivalsa.

Ventiquattro secessionisti arrestati nella notte del primo aprile, madri e padri di famiglia con la disperazione dipinta sul viso, così ottenebrati e pieni di rabbia da credere a una rivoluzione di cartone, neppure riconosciuta in toto dalla Lega Nord.

Uomini e donne comuni, non black block o spacca vetrine qualsiasi, gente che fino a pochi mesi fa era abituata ad alzarsi alle sei del mattino per andare a guadagnarsi il pane.

I Ros hanno filmato i “pericolosi rivoluzionari”, mentre fabbricavano in tutta segretezza un “letale” carro armato artigianale ricavato da un trattore agricolo, dotato di un “pericolosissimo” cannone da dodici millimetri. Il tutto avveniva all’interno di uno di quei capannoni dove una volta c’erano operai e non macerie, dove “produttività” era la parola d’ordine.

Il Veneto degli artigiani falliti e degli imprenditori suicidi, è solo la punta dell’iceberg che in se’ racchiude un esacerbato sentimento di disappartenenza.

Il nostro paese, sempre più disgregato e con quattro governi cambiati nel giro di pochi anni ha completato il primo lustro di una crisi che sembra non voler finire mai, tanti si sono resi conto di non sentirsi più italiani.

Ecco, è questa la verità. Molti di noi non vogliono più appartenere a questo paese per il semplice fatto che non si sentono rappresentati, aiutati e amati da uno stato che dopo aver banchettato per anni e anni ci ha rifilato un osso senza sapore che fa rima con povertà, uno stato avversario e non certo alleato. Si, forse abbiamo perso l’orgoglio e non c’è davvero più gusto a essere italiani, in tanti al nord sognano una regione indipendente che si lecca da sola le ferite, come un lupo che esce malconcio da una battaglia ma sempre pronto per la lotta.

Una decina di anni fa qualcuno aveva già previsto tutto e cantava…

“Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono…”

Già.

Per fortuna o purtroppo?

Carlo Albè