Peppino Impastato

icona editoriale “Appartiene al tuo sorriso l’ansia dell’uomo che muore, al suo sguardo confuso chiede un po’ d’attenzione, alle sue labbra di rosso corallo un ingenuo abbandono, vuol sentire sul petto il suo respiro affannoso: è un uomo che muore”.

Il 9 maggio del 1978 veniva barbaramente assassinato in quel di Cinisi Peppino Impastato, giornalista antimafia e attivista politico.

Proprio in quei giorni nel piccolo paese alle porte di Palermo correva la campagna elettorale, Peppino si era candidato per il consiglio comunale, il suo obiettivo era quello di “sorvegliare” le attività mafiose, che si stavano spandendo a macchia d’olio “grazie” all’operato del boss Tano Badalamenti. Impastato era un uomo piccolo, magro e senza paura, di un’intelligenza spiccata, mista a quella malinconia che colpisce solo i veri geni rivoluzionari.

Prima della sua morte aveva dato vita a “Radio Aut”, a quei tempi una delle tante emittenti radiofoniche che si mettevano in piedi con una piccola antenna, un veicolo comunicativo utile se non altro a rivelare tutte le tresche illegali di Cinisi.

Erano gli anni settanta e nell’aria vagava impazzita una voglia di rivoluzione e amore libero, i ragazzi e le ragazze giravano con pantaloni a zampa d’elefante e camicie attillate, parlavano di lotta e cantavano di ideali che ora sembrano (o forse sono) lontani anni luce.

Peppino Impastato quella notte venne pestato a sangue, legato alle rotaie delle ferrovia e poi fatto saltare in aria. Solo nel 1984 venne riconosciuta la matrice mafiosa del delitto, attribuito poi nel 2002 a Gaetano Badalamenti, unico mandante dell’omicidio.

“I miei occhi giacciono in fondo al mare, nel cuore delle alghe e dei coralli.

Seduto se ne stava e silenzioso stretto a tenaglia tra il cielo e la terra e gli occhi fissi nell’abisso.”

Di Peppino Impastato ci rimangono le poesie e un impegno morale che ha pochi eguali.

“La mafia è una montagna di merda!”. Così si titolava il suo primo articolo, nessuno a quei tempi avrebbe mai pensato che quella macchina di violenza e sangue avrebbe camminato e penetrato anche il nord Italia.

La provincia di Varese, culla del leghismo più sfrenato e di una voglia di legalità solo sbandierata ma in fine dei conti mai del tutto attuata, è intrisa di mafia e ‘ndrangheta, dedite a fare shopping e a banchettare sul nostro tessuto economico ormai stremato.

Estorsione, riciclo di capitali sporchi, concorrenza sleale, il tutto grazie a prestanome nella maggior parte dei casi incensurati e quindi lontani da ogni sospetto.

Già, il sospetto.

Camminiamo ogni giorno al fianco della mafia ma pensiamo che non sia così, perché siamo al nord, perché qui tutti o quasi pagano le tasse e non ci sono villette abusive, convinciamo stupidamente il nostro cervello che l’erba cattiva non possa crescere su un prato inglese, che questo cancro colmo di cemento e appalti non sia in grado di attecchire anche nelle nostre strade, sempre ben controllate da chi ogni giorno rischia l’osso del collo per poco più di mille euro al mese.

Ma non è così. Basta pensare al maxi sequestro di 17 società, 34 appartamenti, 4 bar e ristoranti, 1 terreno, 20 auto, 70 conti correnti nella nostra provincia, a seguito dell’operazione denominata “Bad Boys”, nata e sviluppatasi in quel di Lonate Pozzolo vera culla dell’ndrangheta, e che dire della Mafia Gelese specializzata in traffico di droga, sgominata a Busto Arsizio?

È tutto intorno a noi, e questa provincia una volta isola felice sta perdendo il suo fascino, a favore di un’illegalità travestita da boia.

Perché come direbbe Peppino…

“Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà.”

 

Carlo Albè