Morti bianche

icona editoriale Lavoro che non hai pagato in altra valuta è il salario, non sei certo tempo sprecato ma troppo fiscale è l’orario, devo darti ragione e brindo alla tua nobiltà, è che ti han ridotto a prigione contro la tua volontà, il lavoro mobilita l’uomo è questa la verità.

I quotidiani locali così come quelli nazionali si sono trasformati in una raccolta di eventi tragici dovuti a incidenti lavorativi, trasformatisi ormai in una spaventosa routine.

In ogni parte d’Italia, perchè la morte sa essere molto democratica e non guarda in faccia nessuno, non fa distinzioni di età, anche se a cascare dentro quel burrone nero è sempre la stessa classe sociale. Operai, gente di fatica con le mani rovinate dal tempo e dagli attrezzi, uomini che escono la mattina senza sapere a cosa vanno incontro.

Di certo il destino non pensa minimamente a dir loro che stanno per vivere l’ultimo giorno, lui non fa altro che spingerli fra le braccia di colei che nessuno vorrebbe mai incontrare.

Un po’ come è accaduto pochi giorni fa in quel di Samarate, dove in una fonderia un operaio di quarantaquattro anni è rimasto schiacciato da un pesantissimo cilindro di metallo, come dimenticare poi quel lavoratore di Jerago con Orago, caduto da un tetto che stava sistemando?

Accade sempre più spesso e l’aspetto che più impressiona è la fugacità di queste notizie.

Le morti bianche sono come una guerra che nessuno è in grado di fermare.

I giorni in cui hanno deciso per me son lontani ormai, oggi quello che sono l’ho scelto da me, penso e ripenso ai visi sbiaditi di tanti anni fa, qualcuno là c’è rimasto e nemmeno lo sa.

I dati rilevati dall’Osservatorio Indipendente di Bologna, fondato da Carlo Soricelli, parlano chiaro. Dal 2008 fino ad oggi i morti sul lavoro sono circa seimila, con un’agghiacciante media di mille all’anno, come un piccolo paese di montagna trasformatosi in cimitero.

Il 42% dei decessi avviene nel campo dell’edilizia, il 20% nell’agricoltura, l’8,9% nell’industria e infine l’8,6% nel settore dei trasporti, più della metà si contano sul luogo di lavoro, mentre gli altri in itinere, questi dati portano il nostro paese in vetta alla classifica delle morti bianche, un campionato della disperazione che nessuno di noi vorrebbe dominare ma questo è.

E ce ne dobbiamo fare una ragione, anche perché tutti i governi che si sono avvicendati negli ultimi anni non sono mai intervenuti seriamente per arginare questa macchia sociale, la quale ha avuto il suo culmine mediatico tra la notte del cinque e il sei dicembre del 2007, coi sette giovani operai della Thyssenkrupp di Torino, morti a causa di una bolla di olio bollente in pressione che aveva preso fuoco. Pochi mesi fa la corte di cassazione ha annullato le pene inflitte in secondo grado, con un processo quindi da rifare e che affibbierà delle condanne molto più lievi ai dirigenti Thyssen, unici imputati.

Spaventa un altro aspetto, riscontrabile nell’enorme quantità di operai che lavorano in fabbriche vecchie di decine e decine d’anni, così come il rischio terremoto, perché ad esempio se in Emilia le scosse fossero avvenute di giorno, ci sarebbero state centinaia di cadaveri.

Già, le morti bianche, così definite perché l’aggettivo “bianco” allude all’assenza di una mano direttamente responsabile del decesso.

Forse chi ha coniato questo termine dovrebbe osservare meglio la situazione attuale, perché dietro la scomparsa di un lavoratore c’è sempre un responsabile, una mano invisibile chiamata negligenza, pronta a tenere tra le dita un’arma pronta a sparare.

Peggio di una roulette russa con una pistola carica di pallottole.

 

Carlo Albè