I compro oro

icona editoriale Basta infilare le chiavi nella solita fessura, far saltellare un poco il motorino d’avviamento e partire, ingranare la seconda, la terza e poi la quarta, sperando che il semaforo non diventi rosso, perché è lagnoso fermarsi quando si è raggiunta una modesta velocità crociera.

Basta infilare le chiavi nella solita fessura, far saltellare un poco il motorino d’avviamento e partire, ingranare la seconda, la terza e poi la quarta, sperando che il semaforo non diventi rosso, perché è lagnoso fermarsi quando si è raggiunta una modesta velocità crociera.

Già, basta farsi un giro in macchina e aver voglia di perdere un po’ di tempo per vedere le decine e decine di “Compro oro” che intasano la nostra provincia, perché ormai sono dappertutto con sigle sempre diverse, più numerosi degli autovelox che si attaccano alla targa di qualche povera utilitaria, colpevole di aver superato il limite per pochi chilometri.

Questi piccoli sgabuzzini asettici si possono trovare ai bordi dei grandi e polverosi viali che tagliano in due interi quartieri anonimi e senza uno straccio di attrattiva, sulle grigie statali che precedono l’autostrada, affollate da tir e furgoni guidati da padroncini sempre di fretta, perché si sa che il tempo è denaro, ma negli ultimi anni sono visibili anche in pieno centro, magari accanto a un ristorante rinomato o sotto un portico, che solo pochi anni prima ospitava il duro lavoro di un vecchio artigiano che ora ha appeso gli attrezzi al chiodo.

È scoppiata la recessione e sono comparsi loro, come funghi dopo una giornata di pioggia, ormai del tutto sdoganati e aperti in franchising in meno di un amen.

E hanno tutti la stessa faccia, con quell’insegna giallo fluorescente che buca lo sguardo di chi ci passa davanti e le vetrine lucide, sempre pronte a reclamizzare l’ultima grande offerta da non lasciarsi sfuggire, come i preziosi da regalare per un’occasione particolare alle persone che si amano, proposti a prezzi imbattibili che una gioielleria può solo sognarsi, senza dimenticare naturalmente l’oro da vendere, vero e proprio carburante di questi moderni monti dei pegni.

E dentro quei pochi metri quadri ben sorvegliati da telecamere a infrarossi, con un vetro infrangibile che protegge l’impiegato di turno, ci si può trovare qualsiasi tipo di persona.

Come quelli che una volta erano ricchi e ora, quasi di nascosto e a orari impensabili si vendono l’ultima catenina rimasta, ricordo magari di una vacanza al mare trascorsa quando tutto andava bene. Precedono di pochi minuti le solite casalinghe che a capo chino portano le ultime gioie di famiglia raccolte in un vecchio fazzoletto, perché il frigo in un modo o nell’altro va riempito, alcune sono clienti abituali, la vergogna se n’è andata da un bel pezzo e mese dopo mese centellinano quelle doti di cui una volta andavano gelosamente fiere.

E poi ci sono gli esodati che devono pagarsi le bollette e i libri per i figli, barba lunga, mani in tasca, faccia arrabbiata e un briciolo di spirito battagliero nel contrattare il prezzo della fede nuziale, perché anche qualche spicciolo in più può far la differenza. C’è infine poco da dire davanti alle espressioni sconfitte che campeggiano su visi seminati da rughe di uomini e donne che hanno lavorato una vita per poi trovarsi con un futuro che la crisi ha reso senza volto.

Ricordi che scivolano via da tasche sempre troppo vuote e che vanno dritti dritti su una fredda bilancina elettronica, una pesata, se va bene due e il gioco è fatto.

Maggiore è la purezza dell’oro e più alte saranno le possibilità di non cadere nell’indigenza più assoluta, almeno fino al prossimo mese, perché del domani non v’è certezza.

E la gente entra ed esce come in un minuscolo supermercato di ricordi interrotti, dove è sempre il cassiere ad averla vinta, dove non servono tessere per varcare la soglia, perché c’è sempre e solo un prodotto a prezzo scontato.

La disperazione.

 

Carlo Albè.